di Mario Setta L’utopia è come l’araba fenice. Un uccello che viveva cinquecento anni, moriva e rinasceva dalle sue stesse ceneri. Anche l’utopia muore e rinasce. Senza di essa, gli uomini resterebbero fermi. Come nella descrizione che ne fa Eduardo Galeano: “Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi; lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. Quindi, a che serve l’utopia? Serve a questo: a camminare”. D’altronde, l’ideatore della parola “Utopia”, Thomas More, applica il neologismo ad un’isola immaginaria: “Mi vergogno quasi di ignorare in qual mare sia l’isola di cui ho esposto tante cose”. Non esistendo, Thomas More si lancia a galoppo della fantasia. Il libro di More, come quello del suo amico Erasmo da Rotterdam sull’educazione del principe cristiano, voleva essere una risposta alle idee espresse qualche anno prima nel “Principe” da Niccolò Machiavelli. Se per quest’ultimo, il nocciolo della politica è “la verità effettuale”, prescindendo dalla morale, per More ed Erasmo il comportamento etico deve stare al vertice: onestà, giustizia, coerenza sono princìpi imprescindibili. La politica dipende dalla morale. Una teoria che Norberto Bobbio definiva “monismo rigido”. Thomas More, con quel suo accentuato humour tipicamente inglese, sembra [...]
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